mercoledì 24 marzo 2021

Il coraggio di scegliere - cap. 6: Il ronzio di un alveare

La classe ronza intorno al protagonista e anche Tommaso si lascia coinvolgere dalle frecciatine reciproche che fanno male come le punture di un'ape. Forse serve riflettere un po' per trovare qualche goccia di miele in mezzo alle ferite quotidiane. 




Entro in classe, ma non ho voglia di chiacchierare con nessuno. Mi siedo al mio banco e scrivo, valanghe di pensieri. Un fiume in piena di parole: ho paura che tra poco strariperà, rovinando le coltivazioni ed i raccolti. Alberto lo ha percepito, è per questo che questa mattina non ha parlato. Ha capito che il “suo raccolto” era in pericolo: quando sono in questo stato, potrei ferire tutti per poi sentirmi in colpa per settimane.

Purtroppo, non tutti sono a conoscenza del mio fiume in piena e ieri è stata una giornata da dimenticare. Olivia si avvicina e io prevedo già problemi, chiudo di scatto il mio quaderno e cerco di calmarmi in anticipo. «Tommaso, nel tuo tempo libero fa’ un piacere all’umanità: al posto che rivelare segreti sui social, scrivi degli articoli vagamente interessanti. Può aiutarti» dice, mentre mi sorride come una vipera. Il dolore trasforma le persone: le rende aggressive e a volte persino insolenti. «Ciao, Olivia, mi dispiace: mi hanno hackerato il profilo. Bea non te l’ha detto?» le chiedo, cercando di sorridere, anche se sono sicuro che dall’esterno sembrerà solamente una smorfia. «Allora, due cose voglio dirti. La prima: Bea non mi ha detto proprio nulla e noi ci diciamo tutto. La seconda: non ti azzardare a chiamare la mia migliore amica con il suo diminutivo! Dopo la storia di ieri, non lo vedi nemmeno il nostro livello» mi dice Olivia, guardandomi con aria superba e aggiustandosi i suoi lunghi boccoli gialli sulla spalla destra.

Non riesco più a trattenermi. Ce l’ho messa tutta, ma ora sento la testa ronzare, la mia lingua si sta affilando e il cervello si sta rabbuiando. Mi metterò nei guai con quello che dirò, lo so già. Ma la voglia di controbattere è così tanta! Inoltre lei mi sta guardando con uno sguardo altezzoso, compiaciuta del mio silenzio, e si appresta a tornare da dove è arrivata. «Olivia!» tuono, e lei quasi si spaventa, mentre tutta la classe si gira «Non avevo finito di parlare con te! Avvicinati: non vorrai che tutta la classe ascolti cosa ho da dirti». Noto che tutti mi guardano come se avessi una malattia infettiva, lo mostrano anche fisicamente, perché si allontanano come se non fossero già abbastanza distanti. Tutti si congelano e una voce rompe il silenzio. «Olivia, hai intenzione di portare avanti la tua pantomima? Questa è una questione tra te e lui: hai intenzione di utilizzare la classe con il suo atteggiamento per farlo desistere? Non lo conosci affatto: se non vuoi essere umiliata, va’ da lui!» dice Alberto, rivolgendosi ad Olivia. Olivia si avvicina piano piano, ma tutta la classe rimane in silenzio: vuole ascoltare. «Voi altri non avete nulla di cui parlare? Guardate che chi svela i segreti e chi non si fa i fatti propri vanno a braccetto!» tuona Diana alle mie spalle. Non l’avevo sentita arrivare: mi sento al sicuro con i miei due amici.

Poi però mi ricordo delle parole di Beatrice, mentre tutta la classe torna a fare la baraonda di prima ed io proseguo: «Ieri la tua migliore amica è stata da me. Mi ha detto lei stessa che era un hacker». Modero il linguaggio, mentre la mia lingua continua ad affilarsi e la mia mente si rabbuia sempre di più: «Se avete problemi di comunicazione nell’ultimo periodo, non è affar mio. Ma non ti permetto di venire qui e trattarmi con quella boria di cui ti sei pitturata gli occhi questa mattina. Tu hai i tuoi problemi, ma io ho i miei. Non ti nascondere dietro le tue sofferenze, prendendoti il diritto di schiacciare chi all’apparenza ti sembra più debole!». Il mio cervello ronza, il mio sguardo è gelido e mordo piano la mia lingua con gli incisivi. Esercito una pressione sulla mia lingua per fermarmi, non voglio incidere oltre. Lei ha giocato a freccette con il mio punto debole ed io ho risposto, non riuscendo a stare zitto come al solito. Mi sono già messo abbastanza nei guai: non servirebbe a nulla distruggerla. Fortunatamente in quel momento suona la campanella ed entra la professoressa di francese.

Apro il libro, ma inizio a sentirmi male per ciò che ho detto. “Ma come, la gente non si fa remore a ferirti, mentre tu ora sei qui come un pappamolle a piangerti addosso” penso, mentre completo il primo esercizio. Il problema è che mi sono abbassato al loro livello. Vedo Diana che scrive un bigliettino, vado in panico perché oggi la mia fiducia verso di lei tocca i minimi storici. Nonostante ciò, non voglio ferirla. Mi accorgo che per me, comunque stiano le cose, è una persona molto preziosa. Mi passa il bigliettino, controllando che la prof. non ci guardi. «Tommy, non ti arrovellare tra i sensi di colpa. Troveremo quell’hacker insieme. Alberto mi ha scritto stamattina e mi ha raccontato della visita di ieri…» leggo, mentre mi chiedo perché Alberto debba aver fatto una cosa del genere: è proprio Diana la principale indiziata in questo momento. Forse lui ha visto di più, è cresciuto tanto ultimamente e l’intervento di prima me lo ha dimostrato. Metto un momento il bigliettino sotto l’astuccio, leggo il testo sulla torre Eiffel e rispondo alle domande a crocette. Finiti gli esercizi assegnati dalla prof., che al momento è sulla cattedra e sta firmando il registro, tiro fuori il bigliettino e scrivo: «Perché sul tuo profilo non sono stati svelati segreti e non ti hanno insultata?». Alberto può anche non essere d’accordo, ma io continuo sulla mia pista. Le passo il bigliettino e aspetto con ansia la risposta. Diana lo legge, ma lo mette via: la prof. ha iniziato a girare tra i banchi. Ha un tempismo perfetto quella donna!

Mi giro e vedo Martina piangere in silenzio: non l’ho mai vista così. La prof. le passa di fianco, ma non la nota: quante volte non l’abbiamo notata? La sua tecnica è perfetta: sguardo chino sul libro, nessun singhiozzo, ma solo qualche lacrima traditrice, che si appresta a pulire rapidamente. «Tommaso, che guardi?» mi chiede la prof. piano, per non disturbare gli altri. Io sono indeciso se dirglielo o meno, poi mi faccio coraggio. «Prof., credo che Martina abbia bisogno del bagno» le dico sottovoce. Lei la guarda, si accorge e si ferma a pensare. «Conosci qualcuno che ha confidenza con lei? Non posso spedirla in bagno ed esporla in questo modo» mi dice lei con uno sguardo quasi materno e compassionevole. «Diana, la mia compagna di banco: sono amiche» le sussurro. «Diana, non vorrei disturbarti, ma porteresti Martina in bagno?» chiede delicatamente la prof.. A volte mi stupisco dell’intelligenza di quella ragazza: guarda la prof. negli occhi e guarda Martina, capendo la situazione al volo. «Sì, certo, prof.» le dice piano, mentre si alza senza fare rumore. La classe è intenta nello scrivere, scarabocchiare e spettegolare sottovoce su di me. Nessuno si sta accorgendo di Diana che gira tra i banchi per arrivare a Martina: la prof. si è seduta vicino a me silenziosamente. Se una sola persona è in piedi e tutti sono concentrati, non si vede molto la differenza. Diana si avvicina e sussurra qualcosa a Martina: quest’ultima si ricompone e si alza, senza produrre suoni. Il tempo che la classe si renda conto che è successo qualcosa e sono già fuori dalla porta. La prof. è in piedi nell’angolo della classe, pronta a intervenire nel caso in cui la classe inizi a parlare e a creare più vocio del necessario. Con uno sguardo rasserena i miei compagni e li invita a continuare a lavorare. Sembrava una missione da 007: grazie anche Martina e alla sua capacità di controllarsi, nessuno ha capito nulla. Una sola persona continua a scrivere come se nulla fosse: Beatrice. Mi piace il modo in cui appare concentrata: era così concentrata da non essersi accorta di quello che accadeva intorno a lei. Il ronzio di quattro api non ha svegliato la regina.

La porta si apre e mi risveglio dai miei pensieri: quanto è passato? Dieci minuti o venti? Ero così perso nei miei pensieri, che non me ne sono reso conto. «Prof., ecco la pinzatrice per le schede. Gliela appoggio sulla cattedra!» dice Martina sorridente, appoggiandola. Diana fa miracoli: la pinzatrice era nel piano? «Una botta di fortuna» mi dice Diana, facendomi l’occhiolino «tornando dal bagno, abbiamo incontrato Margherita. La prof. le aveva chiesto di portargliela». Margherita fa parte del personale ATA sul nostro piano, è simpatica e molto empatica. Non entra mai in classe se non necessario, lascia fare a noi alunni e ci ascolta come se fosse una psicologa, quando ci sentiamo sotto pressione o una verifica è troppo difficile. La professoressa inizia a pinzare le schede e a distribuirle. Il resto dell’ora passa veloce, la campanella suona, lasciandoci delusi: avremmo voluto che quell’ora durasse di più.

La classe torna a chiacchierare: le voci e le risate dei miei compagni coprono la suoneria del mio cellulare. Scatto, leggo il messaggio e spengo. «Numero sconosciuto: Non basterà avere degli amici dalla tua parte per farti voler bene dalla classe. Insomma, è colpa tua se non ti vogliono più. Cosa vai a scrivere? Ti trovo patetico, se pensi di sfuggirmi così. Io sono sempre tre passi avanti a te: come faccio? Sono vicinissimo a te e ad ogni tuo movimento!». Guardo d’istinto Diana: ha la testa appoggiata sul banco e ha gli occhi chiusi, sta dormendo. Sono sicuro perché, quando entra il prof., continua a dormire, non accorgendosene. Sfrutto il fatto che l’insegnante si trattenga sulla porta a parlare con la professoressa di francese per frugarle nello zaino: un solo cellulare, il suo! Lo smonto e guardo la scheda SIM contenuta: 374 358 9540. Confronto con il numero che ho in memoria: coincide perfettamente! Mi sento in colpa per aver dubitato di lei. Le accarezzo la spalla e le dico: «Bella addormentata, è arrivato il professore di scienze motorie». Lei non mi sente, deve essere molto stanca. «Diana, è arrivato il prof.: ti prego, svegliati, non voglio che tu prenda una nota!» le dico, mentre le tocco la spalla, smuovendola un pochino. Lei a quel punto apre gli occhi e mi sorride debolmente. «Grazie, Tommy» mi dice, portandosi la mano alla bocca per coprire il suo sbadiglio: «Per la tua domanda di prima, visto che ora c’è tempo… Mi è arrivato un insulto e ha anche scritto il mio grande segreto, ma è stato cancellato tutto, dopo al massimo cinque minuti». Accende il cellulare e mi fa vedere gli screen: «Ti sei interessata ad un ragazzo che non ti vuole, gli stai vicina come amica, solo perché non hai alternative. Sei una perdente, dopo tutto!» e poi un altro che diceva «Perdi tempo a metterti lo smalto e a darti il mascara: copriti le lentiggini, magari così ti accetteranno. Ma credo che nemmeno questo basti!». «Non ho dormito tutta la notte» mi confessa lei, trattenendo le lacrime.

Dopo scienze motorie, tornando a casa, spiego ad Alberto cos’è successo durante l’ora di francese e mi ricordo degli occhi pieni di lacrime di Diana. Tra poche ore ci rivedremo, ma cresce in me la consapevolezza che la mia classe sia come un alveare. Ognuno quando si muove fa rumore, a parte chi soffre. Chi prova dolore è capace di andare e venire in silenzio, per non disturbare. Lo riesce a fare, perché sa quanto male fa se il predatore percepisce lo spostamento d’aria o sente il suo rumore.





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