lunedì 15 marzo 2021

Il coraggio di scegliere - cap. 4: Mimetizzati!

Il giornalino della scuola riserva una sorpresa al nostro protagonista e intanto si prospetta per lui un primo vero appuntamento con una compagna, ma l'identità anonima che continua a tormentarlo si inventa nuovi mezzucci tipici di un cyberbullo. Come farà Tommaso a cavarsela? Scopriamolo nella quarta puntata del nostro giallo, "Il coraggio di scegliere". 




Stasera abbiamo salutato Diana impauriti, mi infilo il mio pigiama e mi chiedo quale sarà la mia prossima mossa. Che abbia capito che frequento ancora Alberto? Intanto che aspetto il mio turno in bagno, riguardo il messaggio. Sono una statua di sale: il messaggio mi ha messo molta paura. Mentre Alberto esce dal bagno, mi chiedo come farò a proteggerci domani. Lavo i denti e mi butto nel letto, rimando il pensiero e cado tra le braccia di Morfeo.

La sveglia suona: quasi non mi ricordo che Alberto è nel letto vicino al mio e manca poco che gli cammini sopra. «Alzati dai, dobbiamo andare!» gli dico, mentre mi dirigo verso l’armadio. «Ancora cinque minuti» mi dice Alberto con la voce impastata di sonno. Mi spazientisco un po’ e allora gli dico: «Non farti pregare, dobbiamo sviluppare il piano per oggi» e gli lancio i vestiti che ho scelto per lui.

In cucina, mia mamma ci porge le nostre tazze piene di latte, sorridendo. Alberto si gusta la colazione, ma si vede che è preoccupato ed è la prima volta. Appena mia mamma va a truccarsi, Alberto mi guarda e dice: «Facciamo finta che non ci parliamo, tieni la reputazione, altrimenti nessuno ti leggerà. Ti metteranno in ultima pagina, sarebbe un peccato!». Rimango scioccato e non so che rispondere. Ho una via di fuga, però è fittizia, ormai è troppo tardi anche per scappare, e farlo sarebbe da codardi. Guardo il mio amico e con voce ferma rispondo: «Ormai ho deciso di stare dalla tua parte, quello che succederà lo affronterò poco alla volta». Lui mi guarda sorpreso e leggermente sollevato. Gli ho appena dato la prova di essere il solito Tommaso di sempre.

Saliamo in macchina, mia mamma oggi ha fretta, ma non ha voluto lasciarci andare a scuola in autobus. Dice che era da molto che non andavamo a scuola insieme e non voleva perdersi il momento. Mentre sono accoccolato sul sedile posteriore ad ascoltare la musica, mi suona il cellulare. Non ho voglia di controllare chi sia, quindi lo tengo in tasca, ma vedo Alberto guardarmi preoccupato dallo specchietto retrovisore: gli lancio uno sguardo interrogativo e sento che il mio cellulare suona di nuovo. Anche questa volta non guardo e mi concentro sulla musica per distrarmi. Dopo circa cinque minuti, suona un cellulare, ma non è il mio e quasi sono sereno. Alberto mi guarda in panico, ma sta in silenzio mentre mia mamma guida e canticchia. Credo di aver capito chi sia il mittente, ma non ho nessuna intenzione di guardare ora: porto avanti la pantomima per mia mamma, perché non voglio che si preoccupi e Alberto fa lo stesso.

Finalmente arriviamo davanti a scuola, scendiamo dalla macchina e salutiamo mia mamma con un sorriso che muore non appena gira l’angolo. Sblocco il cellulare: «2 Nuovi Messaggi da Numero Sconosciuto». Clicco sulla notifica titubante: non ho molta voglia di leggere. «Numero Sconosciuto: Tieni d’occhio il cellulare oggi: se non fai ciò che dico, potresti essere il prossimo Gabriele». Inizio a temere per la mia salute fisica: «Numero sconosciuto: Iniziamo male, picchiarti sarebbe da codardi, perché non è il tuo campo. Credo userò le parole: vediamo cosa dirà il tuo pubblico!». Dal male fisico al male psicologico. Alberto finisce di leggere il suo messaggio e mi porge il cellulare: «Numero Sconosciuto: Alberto, stai attento ai tuoi amici, perché non sempre sono veri». Ci guardiamo ed entriamo, pronti per la battaglia di oggi. La scuola ha le finestre aperte come occhi, ci guarda ma non fa nulla, come se se ne fregasse del fatto che la abitiamo e che lei, per noi, dovrebbe essere un luogo sicuro.

Entro in classe e vedo Beatrice: che boccata d’aria fresca. Sembra quasi che tutte le mie preoccupazioni spariscano. Alberto, che era entrato con me, mi dice: «Sono giorni che vedo come la guardi, vai a chiederle di uscire…». Divento rosso e tutta la classe si ferma, guardandoci perplessa. La coppia storica di amici è tornata ed è una cosa assolutamente pericolosa. Gli altri il pericolo non lo percepiscono, io invece sento il suo odore acre ovunque vada. Senza pensarci decido di approfittare che i giocatori della squadra di basket vicino a Beatrice abbiano smesso di riempire lei e le sue amiche di chiacchiere per avvicinarmi. «Beatrice, possiamo parlare un momento?» le chiedo un po’ emozionato. «Certamente» dice Beatrice, mentre si alza e mi segue in un angolo dove il resto della classe fa a fatica a sentirci. «Mi chiedevo se volessi uscire con me» le chiedo un po’ impacciato e la vedo sorpresa. «Mi piacerebbe, Tommy: mi sembri un ragazzo interessante» mi dice lei con un sorriso magnifico «Facciamo da me venerdì per le 15:00?». Non ci credo: mi sembra un sogno e non vorrei svegliarmi e riesco a pronunciare appena un: «Certo, va bene, ci vediamo dopodomani!», cercando ovviamente di darmi un contegno in modo da sembrare un ragazzo figo oltre che interessante, soprattutto perché c’è la classe che ci guarda. Ci allontaniamo piano piano ed un particolare mi fa tornare alla realtà.

Diana era seduta al nostro banco che mi guardava spaesata: mi avvicino e sistemo la cartella. «Buongiorno, Diana. Sei libera domani?»: le chiedo di vederci, perché abbiamo bisogno di definire come muoverci, ma oggi pomeriggio voglio giocare alla PlayStation con Alberto. Mi giro a guardarla e lei guarda altrove con sguardo assente: le sarà arrivato un nuovo messaggio. «Non lo so, dovremmo anche studiare. Se facciamo matematica insieme va bene, altrimenti me ne sto a casa!» mi risponde in modo aggressivo. «Oggi mi sono arrivati due messaggi: mi dicevano di stare attento e tenere il cellulare vicino. Quindi non l’ho spento» le dico, sperando mi possa supportare. «Ma sei pazzo?! Se ti becca la prof., ti ritira il cellulare ed è peggio. Anche a me è arrivato un messaggio, consiglia di stare attenta ai miei amici, perché non si sa quali lo siano davvero» dice, guardandomi storto. «È lo stesso che è arrivato ad Alberto» le dico senza pensarci. «Speriamo non ci entri tu ora al centro del ciclone, dopo Gabriele» dice, mentre la prof. di italiano entra in classe.

Finalmente il momento che aspettavo: l’annuncio di coloro che faranno parte del giornale! La professoressa appoggia le cose sulla cattedra e prende in mano i nostri temi da cui tira fuori un fogliettino su cui ha preso alcuni appunti. «I temi migliori sono stati quelli di due di voi» inizia a dire: ho il cuore in gola. «Questi due allievi hanno l’accesso diretto, mentre gli altri tre che nominerò dopo saranno il loro team. Mi raccomando: fate fare bella figura ai vostri colleghi!» fa una breve pausa e poi riprende: «No dai, iniziamo dal team. Allora: Martina, Marco e Beatrice» mi sento male, nessuno scrive meglio di Marco, il secchione della classe… sono spacciato. «Mentre i temi migliori sono di Diana…» eccoci, meglio scrivere alla mamma di prepararmi una torta al cioccolato «…e Tommaso!» dice la prof sorridente. Io sono incredulo e guardo Diana, come se ci avessero appena detto di aver vinto il premio Strega. Vedo un velo di felicità nei suoi occhi: mi chiedo se sia per il fatto che è stata la migliore o perché vorrebbe davvero farne parte. Sarebbe bello poter collaborare con una ragazza così intelligente. Lei non mi guarda, guarda la prof.. Io rifletto sugli avvenimenti e guardo le reazioni della classe. Per quest’anno sono riuscito ad entrare nel giornale: spero di riuscirci anche il prossimo. «Tommaso, hai capito? Finito le lezioni vi fermerete un momento in più per discutere del primo articolo: una cosa da dieci minuti» mi dice la prof. sorridendo ed in modo gentile. «Sì, prof, va bene» le rispondo imbarazzato.

La giornata sta passando velocemente, non mi sono ancora arrivati messaggi e non è successo ancora nulla di scomodo. Sono nel cambio d’ora e scrivo sul mio quaderno delle ispirazioni, quando la mia cartella vibra. Prima che la prof. entri, guardo le notifiche: «Numero Sconosciuto: Mandami le foto di ciò che stai scrivendo!» leggo impietrito. Ma stiamo scherzando? Le mie cose non le mando a nessuno, mica che poi mi copiano! Vorrei spegnere il cellulare, ma non voglio far pensare di non voler collaborare: sarebbe la fine. Quindi rispondo al messaggio con un: «Io: Il mio quaderno no, sono solo scarabocchi. Se mi mandi la tematica che ti serve, posso mandarti due o tre idee per scrivere un tema». Penso di essermi salvato ed invece mi arriva un altro messaggio: «Nuovo Messaggio: Non mi basta. Stai attento!». Butto il cellulare in cartella: non ho nessuna intenzione di dare i miei pensieri più belli ad una persona che non ha voglia di impegnarsi e forse nemmeno un briciolo di intelletto.

Entra il prof. di scienze ed il mio zaino inizia a vibrare. «Sono fregato» penso, mentre senza farmi notare spengo la chiamata: «Chiamata in entrata da Numero Sconosciuto». Per fortuna la baraonda che nel frattempo la mia classe stava facendo ha coperto il telefono. Metto il silenzioso, Diana mi guarda con una faccia come a volermi dire «Te lo avevo detto!» e io le accenno un mezzo sorriso imbarazzato. Un po’ come fai con tua mamma, quando ha ragione, ma non vuoi pronunciare quelle parole per non ammetterlo. Il professore si siede alla cattedra ed inizia a firmare il registro e a fare l’appello. In quel momento entra Martina con in mano la giustifica del ritardo: non mi ero accorto che mancasse… Ho vissuto nel mio mondo fino a questo momento. Ha una faccia distrutta ed un’aria molto triste, ma non saprei definire il motivo: purtroppo non posso leggere nel pensiero alle persone. Mi giro verso Diana e le chiedo sottovoce: «Sai che cos’ha?». Diana mi risponde allargando le braccia: «Non ne ho idea, è la prima volta che la vedo così». «Tommaso, Diana… la smettete di parlare? Anche se non sento cosa dite, vi trovo fastidiosi» dice il professore avvicinandosi. Io inizio a sentirmi male: non sono mai stato ripreso così tante volte come oggi. «Anzi potreste rendere partecipe tutta la classe» dice lui, facendo una smorfia e avvicinandosi sempre di più al nostro banco. «Niente, prof., stavamo discutendo sul primo articolo per il giornale» mento spudoratamente. Vedo che però la sua attenzione non si focalizza sulla mia faccia che ha scritto in fronte «HO MENTITO!!» a caratteri cubitali, bensì sul mio zaino che si stava illuminando. Sto sudando freddo, Diana lo nota e mi sfiora la mano, senza tuttavia afferrarmela: ho un brivido. «Ricomponiti!» mi arriva un sussurro appena percettibile, mi giro verso la mia compagna di banco e lei mi sorride. Il professore estrae il mio cellulare e legge ad alta voce: «Chiamata in entrata da Numero Sconosciuto». Tutta la classe gela all’istante. «Queste pubblicità, chiamano sempre nei momenti meno opportuni» dice il prof. ridendo. «Questo lo requisisco: le sai le regole» mi dice fermo e poi aggiunge: «Vieni da me al cambio d’ora».

Fatico a stare attento alla lezione, tutta la classe fa fatica. All’improvviso suona la campanella e mi sembra un coltello che taglia l’atmosfera ormai tesissima. Vado dal professore, sperando vivamente che non chiami i miei. «Tommaso, sei un ragazzino rispettoso e ligio alle regole. Com’è successo?» mi chiede amareggiato, ma con fare quasi paterno. «Non lo so, prof., mi sono dimenticato… ero teso per le nomine del giornale» improvviso. «Sono tappe importanti, ma non perdere il focus. Questo è l’inizio di una nuova avventura, non la meta» dice, facendomi l’occhiolino. «Hai potenziale: sfruttalo! Se hai bisogno di qualsiasi cosa, dimmelo» mi dice in modo tranquillo ma fermo, come se nei miei atteggiamenti avesse letto molto di più. «Grazie, prof., buon pomeriggio allora» mi allontano, mentre lui mi saluta con la mano.

Arrivo tardi alla prima riunione, cavolo! Dieci minuti per dirci di pensare al primo articolo e di scrivere una mail al responsabile del giornale della scuola entro lunedì. Il responsabile è uno spocchioso di terza che crede di essere arrivato, solo perché è tra i più grandi della scuola. Però sotto sotto... mi piacerebbe essere come lui in futuro: sembra sicuro e determinato. Per tre anni ha fatto parte di questo giornale. La spocchia deriva dal fatto che ci vede come pivelli, non importa se abbiamo un solo anno o due anni di differenza: per lui siamo piccoli. Vedo i capelli di Beatrice in lontananza e mi perdo, non ascolto più. Mi risveglio quando il preside dice «Bene, abbiamo concluso. Ci vediamo venerdì prossimo in redazione» e ci saluta tutti. «Meno male che non è questo di venerdì» penso «altrimenti avrei dovuto annullare con Beatrice».

Raggiungo Alberto in macchina da mia madre. Entro e mia madre mi dice: «Alberto non è ancora arrivato, credevo fosse con te», panico. Esco dalla macchina e corro in classe, ma non c’è. In cortile, non c’è. Vado in bagno e lo trovo raggomitolato in un angolo che piange e, vedendomi arrivare, mi dice: «Come hai potuto?!». Rimango fermo come una statua di sale. Piano piano trovo il coraggio e gli chiedo: «Cos’ho fatto?». Alberto mi guarda furioso e mi dice: «Mi hai riempito di insulti sotto i miei post! Mi hai definito infantile ed inaffidabile, ma questo è il meno: hai detto a tutti che i miei si stanno separando! Non ne avevi il diritto!». Io non sono sicuro di non averlo fatto, mi sento come appena risvegliato e non mi ricordo come possa essere successo. Dopo qualche minuto, mentre sto riaccompagnando Alberto alla macchina dopo che si è ricomposto, si insinua in me il dubbio di averlo fatto davvero e di essere pazzo e non ricordarmelo. Poi rinsavisco: «Io non l’ho fatto, davvero! Devo indagare» penso.

Il mio cellulare inizia a suonare all’impazzata: tutti i miei compagni di classe mi scrivono, dicendomi che sono falso e che non mi devo permettere di scrivere certe cose sotto i loro post. Sono nell’occhio del ciclone. Ma ecco una mano, Diana mi scrive e mi dice: «Diana: Tommy, cambia la password del tuo account e mimetizzati! Saranno giorni duri, ma io ti starò accanto. Ad Alberto lascia del tempo, lo sa che non sei stato tu. La rabbia però è tanta, perché la scuola era l’unico posto in cui le persone non provavano pena per lui, non sapendo della sua situazione in casa». Non sono solo: c’è ancora qualcuno che mi vuole bene. 


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