martedì 20 aprile 2021

Il coraggio di scegliere - cap. 9: Pedone in D-8

Ormai per Tommaso sembra finita, ma ha ancora il coraggio di fare l'unica cosa giusta: rivolgersi agli adulti. Gli crederanno? Intanto una notizia sconvolge la classe durante l'ora di scienze, mentre Diana non degna di uno sguardo chi le ha preferito un'altra. La partita è persa o forse c'è ancora una mossa da inventare?




Sono sdraiato sul mio letto e fisso il soffitto, non nascondo che sto male. Insomma, lei che per me rappresentava la bellezza vera… d’improvviso si rivela tutt’altro. Alberto entra in camera con del cioccolato e due spremute. Appoggia sulla scrivania il cioccolato e mi porge un bicchiere, sedendosi poi sul letto di fronte al mio. «Come ti senti?» mi chiede preoccupato il mio amico. «Mi vergogno: ho davvero creduto di interessarle e ho lasciato in un angolo Diana. Ho inseguito una chimera, andava sempre più veloce e io ho accelerato sempre di più. Poco tempo per pensare e poca lucidità da parte mia: Beatrice è bellissima esteriormente, ma interiormente…» sospiro, nascondendomi il viso con le mani «…l’ho guardata negli occhi ed interiormente non mi è piaciuta: mi ha fatto persino paura». «Ci credo che ti abbia fatto paura! Ti ha praticamente detto di essere stata lei a pedinarci per mesi!» replica Alberto, finendo la sua spremuta, poi torna a guardarmi negli occhi serio: «Come credi di fare con Diana?». Mi pone la domanda di cui avevo più paura e i miei occhi iniziano a bruciare. «Tommy…» dice il mio amico, guardandomi. «Albi, non lo so, mi vergogno tantissimo per come l’ho trattata: si sentirà la ruota di scorta! Non avrei dovuto assolutamente farmi ammaliare da Beatrice, ma l’unico modo per capire se caratterialmente fosse fatta per me in un tempo decente era uscirci…» affermo piano, come se non avessi più fiato. «Non devi convincere me, devi parlarne con Diana e vedere cosa ne pensa lei. Io sono sempre con te però, qualsiasi cosa accada» mi dice Alberto, andando a prendere il cioccolato. Finisco l’ultimo sorso di spremuta e mi precipito verso il mio cellulare. «Ora provo a chiamarla!» dichiaro emozionato. Alberto mi guarda perplesso, ma mi lascia fare. Scelgo il suo nome in rubrica e la chiamo, faccio un sospiro e metto il cellulare sull’orecchio. Inizia a suonare ed io non vedo l’ora di sentire la sua voce, uno… due… tre squilli. Dieci… undici… dodici, il mio cuore batte e l’ansia sale. Alberto mi guarda capendo, prima di me, che Diana non risponderà. Inizio a leggere il pensiero nei suoi occhi e mi sento di nuovo male. Mi vergogno di ciò che ho pensato: lei non ha nessun obbligo di essere accanto a me per prendermi al volo. Soprattutto dopo che ho dubitato di lei e sono uscito con un'altra ragazza, sapendo di piacerle: che disastro che sono!

«Tommy, Albi! È pronto, venite a tavola!» dice mia mamma dalla cucina. Questa sera sono venuti a cena anche i genitori di Alberto: credo sia la sera giusta per raccontare che cosa sta accadendo. «Albi, è ora che raccontiamo. Lunedì sarà la mia fine, ma tu potrai vivere bene a scuola: senza paura…» dico piano per non farmi sentire dai nostri genitori. Sono agitato, ma penso sia l’unica cosa da fare. Lui mi guarda, annuendo tristemente: credo che l’idea che io me ne vada non piaccia molto nemmeno a lui.

La cena è stata liberatoria e alla fine è passata tranquilla: abbiamo raccontato cosa ci stava capitando e i miei mi hanno detto che mi staranno accanto, qualsiasi cosa accada. Ora mi sento molto più al sicuro e anche Alberto è sollevato. La mamma del mio amico ha cucinato una lasagna e una torta pazzesca. Mi avvio in camera, mentre Albi finisce di salutare i suoi genitori, poi crollo sul letto e mi addormento senza cambiarmi: sento addosso il peso dei secondi che passano. Nonostante mi senta al sicuro, sento pressante e assurdo il fatto che io mi debba difendere per una cosa che non ho assolutamente commesso. Il plagio è sempre stato contro ogni mio codice morale, lo sanno tutti. Faccio fatica addirittura a pensare di copiare durante una verifica! Credevo che i miei professori se ne fossero accorti, invece una lettera anonima mette a repentaglio la mia condotta ai loro occhi. D’improvviso smetto anche di pensare, abbracciando Morfeo: per il momento il mio cervello è in pace.

La domenica passa velocemente tra il pranzo dai nonni e le solite cose da fare. Ho provato anche a chiamare Diana, più per scusarmi che per ottenere il suo perdono. Ma non mi ha mai risposto: conosco a memoria la sua segreteria telefonica ormai. Ho messo a soqquadro le cose, avevo la soluzione davanti, ma ho voluto sbatterci il naso. Diana invece mi è sempre stata accanto, nel bene e nel male. Io, invece, l’ho ripagata lasciandola da parte. Che amico pessimo: il fatto che lei non voglia rispondermi è puramente lecito. Mi chiedo solo se ci sarà mai occasione per fare pace. Alberto si siede vicino a me, risvegliandomi dai miei pensieri, e mi porge il suo cellulare aperto su una chat: «Diana: Albi per favore, diresti a Tommy di smettere di chiamarmi? Non voglio metterlo nella lista nera delle chiamate in entrata...». Il messaggio è chiaro e il mio amico aveva la faccia dispiaciuta. Non devo starle addosso, potrei ottenere l’effetto contrario rispetto a quello sperato. «Grazie, Albi, andiamo a farci una passeggiata?» gli chiedo, spegnendo il cellulare e mettendolo sulla scrivania. Non ho nessuna intenzione di portarlo con me: ha già condizionato abbastanza la mia vita fino ad ora. Alberto capisce e mette in tasca il suo in modalità silenziosa per le emergenze ed usciamo.

Arrivato a sera sento il tempo scorrermi ormai via dalle mani e sono comunque contento di aver vissuto il mio sogno, anche solo per qualche mese. Certo, grazie allo zampino di Beatrice non è stato privo di angoscia e di pensieri, però sono entrato nella scuola che desideravo. «Tommy, non ti preoccupare per domani: sarà dura, ma ti saremo accanto. Spegni la luce ora e cerca di chiudere gli occhi» mi dice Alberto, agitato quanto me. Faccio come mi dice: spengo la luce, mentre alcune lacrime iniziano a rigarmi le guance.

MI sveglio, è lunedì. Mi alzo dal letto trascinandomi: sento come se avessi i catenacci ai piedi. Un galeotto, sotto accusa per il peggiore dei mali. Il mio processo non è limpido, ma costruito. La pietra angolare che lo regge? Una lettera anonima scritta dalla ragazza che mi ha fatto invaghire di lei solo per screditarmi e togliermi dalla competizione. Mentre penso a questo, immagino un tribunale inglese, con un sacco di giudici ed avvocati con la parrucca a boccoli bianchi. Ci passo in mezzo, mi sento lì con loro, mentre mi guardano sprezzanti. E poi una mano sulla mia spalla: «Tommy, dove stai volando con la mente? Vai a sistemarti che oggi devi dimostrare quanto vali». È Alberto. Il palazzo di giustizia che mi ero appena immaginato si fa piccolo e sparisce tra tutti i pensieri che ho buttato via. Inizio a camminare con la schiena dritta: oggi non sarà il mio giorno del giudizio. Se me ne devo andare, lo farò con la testa alta.

Faccio colazione, sistemo i polsi del maglioncino sotto lo sguardo dei miei genitori. «Tommy, vuoi dirci qualcos’altro che ci sarebbe utile per proteggerti al meglio?» chiede mia mamma, accarezzandomi la guancia. «No, mamma, sapete tutto» le dico, guardandola negli occhi: non li ho mai visti così grigi. Solitamente li ha di quel colore quando è preoccupata, ma oggi sembra più arrabbiata che altro. Lei è una giornalista: sa quanto pesa una falsa accusa di plagio. Si sistema le pieghe della camicia, accompagnandola con le mani. È una sua paranoia: nonostante l’abbia stirata venti volte, ha paura che non sia perfetta. Aggiusta la collana sotto il colletto, mentre si guarda allo specchio all’entrata: è agguerrita. Mentre studio la mamma, arriva papà dicendo: «Non ho trovato le foto, devono essere dai miei» è un po’ triste. «Ce la faremo anche senza: vedrete!» dice Alberto, attirandosi lo sguardo di tutti. Sorridiamo ed usciamo: che la battaglia abbia inizio!

Arrivato a scuola, mi dirigo con i miei genitori dal preside, mentre Alberto sale in classe salutandoci. Aspetto davanti all’ufficio per un’ora, nell’attesa che il preside ci faccia entrare, ma nessuno si fa avanti. Sembra quasi che non ci sia anima viva in quell’ufficio. Improvvisamente, in fondo al corridoio vedo arrivare il professor Tomasini che si avvicina: «Buongiorno, signori, sono il professor Tomasini. Insegno scienze a vostro figlio» dice, porgendo la mano «Il preside è in ritardo per via di un contrattempo. Sono desolato per il tempo che state perdendo… sono qui per chiedervi se Tommaso potesse salire a fare lezione nell’attesa». Guardo con aria implorante i miei genitori: non ce la faccio più a stare fermo su questa sedia ad aspettare una persona che non arriva. «Se per il preside non è un problema…» dice mia mamma al professore, ricambiando la stretta di mano. «No, gliel’ho chiesto io stesso. Sono riuscito ad ottenere il permesso solo per la mia lezione però: saremo qui tra un’ora» dice il prof. contento. I miei acconsentono ed io mi incammino con il mio insegnante verso le scale.

Appena entro in classe, Martina e Alberto corrono ad abbracciarmi. «So cosa ti sta succedendo: è accaduto anche a me. Mi ha minacciato! Beatrice mi ha detto che, se ti difendo, rivelerà il mio segreto. Ho deciso così di rivelarlo io stessa!» mi dice piano Martina. Io rimango stupito e perplesso, ma ricambio il suo abbraccio sotto lo sguardo colmo di giudizio della classe. Tutti mi guardano come se fossi un mostro, tutti tranne Diana che non mi guarda nemmeno. «Va’ a sederti al tuo posto» mi dice il professor Tomasini, indicandomi il banco vuoto vicino alla ragazza più bella che io abbia mai conosciuto. Mi siedo e la mora non mi degna nemmeno di uno sguardo: è proprio ferita. «Ragazzi, buon giorno!» inizia il prof. «Oggi vorrei proporvi una lezione speciale. Parleremo infatti delle malattie piuttosto gravi che si sviluppano a causa di alcune anomalie che possono verificarsi nelle nostre cellule. Sto parlando dei tumori…». La classe trattiene il fiato, mentre il professore inizia a girare tra noi: «Cosa accade? Perché una cellula dovrebbe creare un problema al suo stesso corpo? Le operazioni svolte all’interno della cellula non sono sempre compiute perfettamente. Infatti, esistono dei processi chiamati di controllo. Ma se il nostro corpo non nota gli errori, si potrebbe creare una cellula che inizia a riprodursi in modo incontrollato, creando una massa, composta di cellule come lei, maligna. Questo crea malessere nella persona a seconda della zona attaccata…». L’insegnante si è fermato in fondo alla classe e ci costringe a girarci per guardarlo. Non appena ci siamo voltati tutti, la sua espressione diventa molto seria e continua: «Questo può accadere anche tra di voi. Qualcuno soffre, ha un problema e cambia. Cambiando inizia ad ammorbare gli altri e ciò causa problemi non indifferenti nel gruppo classe...». Riprende a girare per tutta la classe, guardandoci ad uno ad uno negli occhi: «Come si fa a guarire? Ci sono zone del nostro corpo che, se per caso vengono intaccate, portano ad un’alta percentuale di morte. Come ad esempio: il polmone, lo stomaco, il fegato…» la classe è immobile ad ascoltare «Quindi si ricorre alla chemioterapia, alla radioterapia oppure ai trapianti. La chemioterapia è la somministrazione di sostanze che aggrediscono le cellule cancerose per cercare di bloccarne la replicazione. Mentre la radioterapia è localizzata e non invasiva. Provoca la necrosi delle cellule cancerose grazie alle radiazioni ionizzanti. Il trapianto invece è la rimozione della massa cancerosa e la sostituzione con un tessuto appartenente all’individuo o con un organo di un donatore». Vedo Martina piangere in fondo alla classe. Credo di iniziare a capire, mentre Tomasini si ferma sulla cattedra. «Alla classe non serve, le persone “ammorbate” da comportamenti negativi non vanno portate alla necrosi, bensì alla vita. Attraverso attività che li facciano sentire utili e apprezzati» conclude il professore, firmando il registro.

«Prof., potrei raccontare una cosa?» chiede Martina, alzandosi in lacrime dalla sua sedia. Il professore alza lo sguardo. «Martina… te la senti?» chiede, guardandola con apprensione. «Sì…» risponde lei, quasi sotto voce. Il prof. le fa un cenno di consenso. Al posto di continuare a firmare il registro però, rimane a guardarla: come se dovesse stare attento per correre in suo soccorso da un momento all’altro. «Ho la leucemia, un tumore del sangue che è provocato dalla proliferazione delle cellule staminali» confessa la mia amica, crollando sulla sedia a piangere «Questo mi fa sentire male anche dal punto di vista psicologico, perché sento come se questa cosa mi rendesse diversa dagli altri. E la cosa peggiore è che non l’ho scelta io. Se facesse soffrire solo me, direi “chissenefrega”. Il problema è che fa male anche agli altri e non me la sento di avere amicizie troppo profonde: ho paura di ferirle». La classe ascolta in silenzio le ultime vibrazioni nate dalle corde vocali di Martina: noto che anche Diana piange. «Prof., cosa sono le cellule staminali?» chiede Marco, uscendo dal suo personaggio e stupendo tutta la classe. «Sono cellule che con la maturazione diventeranno globuli bianchi, globuli rossi e piastrine. I globuli bianchi difendono l’organismo da sostanze come virus, batteri o corpi estranei. I globuli rossi danno colore al sangue e aiutano la respirazione cellulare. Le piastrine sono piccoli frammenti che aiutano la coagulazione del sangue. Nel caso di Martina chemioterapia e radioterapia non bastano: serve il trapianto delle cellule staminali» afferma il professore «Grazie, Martina, per questo regalo». Vedo che anche il professore è commosso.

La campanella suona, cogliendoci in lacrime: è arrivato il momento di salutare tutti. Prendo la mano a Diana e la stringo: «Ti voglio bene» le sussurro piano. Mi allontano lentamente verso il professore che mi sorride e mi dice: «So cosa sta capitando, sono con te». Ho paura, ma non mi sento solo: questo basta per farmi lasciare quell’aula a testa alta, sotto gli occhi vittoriosi di Beatrice, e dirigermi verso l’ufficio del preside. Qualcosa mi dice che, nonostante la sua vittoria sia quasi palese, ora sia lei ad avere le ore contate. 


 

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