Camminiamo
dentro pareti di parole, voci, eventi, persone, il cielo è sopra, ma
non vediamo di lato. La calamità è così, ci chiude in un mondo che
è l’unico possibile, dove si allontanano futuro e passato perché
l’oggi è incombente, necessario, quello. Il tempo del Covid, ma in
genere il tempo del Dolore, tende a resettare la memoria, quella a
lungo termine: si vive qui e ora, facendo al meglio ciò che ci
riesce, ma col rischio di fissare lo sguardo sulla nostra sofferenza
e assolutizzarla. Per non dilatare oltre misura il nostro male,
diventa quindi necessario fare spazio ad altre memorie. Ed è qui che
entrano in gioco i giovani, i soli capaci di farlo. I ragazzi, per
natura, sono aperti, non stratificati, sentono il dolore proprio e
nello stesso tempo sono in grado di ascoltare quello altrui,
accolgono insieme la sofferenza del loro presente e quella della
Storia. Diventano silenziosi davanti alla morte sempre, sia che venga
dalla corsia di un ospedale, sia che venga dal ricordo di una trincea
o di un lager. Non fanno differenze, danno cittadinanza ad ogni
memoria di dolore. Per questo è sempre intenso e altamente educativo
per noi adulti vivere insieme con loro il Giorno della Memoria, a cui
non abbiamo rinunciato nemmeno al tempo del Covid! La Memoria della
Shoa, non è un sentimento, la memoria è giustizia, l’oblio
ingiustizia.
Il
lavoro che segue, considerate le restrizioni del momento, è stato
fatto “come abbiamo potuto”, ma con la stessa passione di sempre.
Si struttura in due sezioni, una dedicata alle “parole della
Memoria”, l’altra alle “immagini della Memoria”. La prima
sezione, che introduce alla seconda, si presenta come un’antologia
di poesie e testi narrativi prodotti dai ragazzi dopo un confronto
vivo con opere letterarie e documenti d’epoca analizzati in classe;
la seconda è una raccolta di video, foto, immagini … dove la
parola e le emozioni vengono riscritte attraverso linguaggi plurimi e
multimediali. Il nostro lavoro di insegnanti è stato prevalentemente
di guida, accompagnamento, rifinitura per dare risalto ad un prodotto
già nato formato, come lo è tutto ciò che esce dall’animo di
ragazzi motivati.
Non
ci resta che dire, come di consueto, grazie e buona visione!
I
prof. Bacchelli, Golinelli, Piva, Pullé
Le
parole della memoria
Cosa
hai fatto a te stesso?
(di
Christian Cigarini 3^B)
Che
non succeda mai più,
ghetti,
deportazioni,
stermini,
carrozze
stipate di uomini,
donne,
vecchi e bambini
che
discendono verso
l'Inferno.
Non
rivedi in quei corpi straziati
i
tuoi padri,
i
tuoi fratelli,
i
tuoi amici,
i
tuoi compagni?
Mi
rivolgo a te,
uomo,
cosa
hai fatto a te stesso?
Auschwitz
(di
Domenico Vasaturo 3^B)
Nei
campi ci sono molte persone,
non
si sente mai ridere,
ma
si sente solo un grande buio muto.
Come
può un uomo uccidere un bambino?
Quando
riuscirà un uomo a dimenticare la violenza?
Quando
riuscirà a dimenticare la cattiveria e l’odio?
Ancora
si sentono gli spari:
sono
morte centinaia di persone che ora vivono in questi versi.
L’uomo
che ha commesso ciò non si è ancora pentito.
Ad
Auschwitz nevicava,
ma
nessuno giocava:
tra
tutte le cattiverie che possedeva, l’uomo scelse la peggiore.
La
vita di un ebreo
(di
Enrico Testi 3^B)
Cammino
con passo tremante verso un grande treno,
la
paura mi percuote pensando alla pena da scontare:
chissà
dove mi porta - pensa la mia mente senza freno -
sento
il cuore battere forte, la mia pelle tremare.
Che
orribile viaggio, che orribili sensazioni,
sento
il fiato degli altri passeggeri sul collo,
imploriamo
cibo ancora sui vagoni,
io
accasciato a terra, come a mollo.
Siamo
arrivati finalmente:
appena
sceso, vedo un cancello,
entro
sperando nella buona sorte.
Che
minaccioso posto, per nulla bello!
Accompagnato
da due tedeschi armati,
sento
imponente la loro voce,
cammino
sui miei piedi scalzi e bagnati
verso
una stanza: le docce.
Dobbiamo ricordare
(di
Giancarlo Benatti 3^B)
Dobbiamo
ricordare
che
c'erano uomini, mamme, bambini, malati,
tutti
quanti impotenti a cambiare i loro destini.
Dobbiamo
ricordare
una
ragazza costretta a guardare il cielo dalla sua soffitta
e
che non si è data mai per sconfitta.
Dobbiamo
ricordare
un
paio di scarpette rosse,
buttate
in cima a un mucchio di scarpe abbandonate.
Dobbiamo
ricordare
l'uomo
che lavorava nel fango
e
la donna senza capelli e senza nome.
Dobbiamo
ricordare
le
urla di chi ha ordinato loro di scavarsi le fosse,
ma
loro lo hanno fatto a testa alta, nonostante le percosse.
Dobbiamo!
Dobbiamo!
Ricordare
per non dimenticare
coloro
che hanno perso la vita,
perché
solo così
potremo
far sì che quella scia di odio e violenza
che
fu l'Olocausto
non
possa più verificarsi.
In
memoria di Primo Levi
(di
Diego Melangola 3^B)
Oggi
si spera nell’eterna tranquillità,
la
salute è cosa quasi scontata,
di
diritti come la libertà
ogni
persona è beneficiata.
Ma
poi riaffiorano tante memorie
che
mi tormentano da molti anni:
fanno
più male di mille sparatorie,
tutto
questo per colpa dei tiranni.
Ricordo
quell’uomo deriso e umiliato,
che
perse ogni speranza in quel luogo sperduto,
senza
vita giacque poi accasciato
e
nell’oscurità il suo spirito è caduto.
Ricordo
quella donna disfatta
a
cui venne sottratta la vita,
trattata
peggio di una blatta,
divenne
alla fine impazzita.
Ogni
cuore era mutilato,
ogni
persona spacciata,
ogni
uomo veniva annullato,
ogni
donna spezzata.
Racconto
questo per assicurarmi
che
ciò non si ripeta
e
che, sia io vivo o morto,
ciò
che accaduto si ricordi in tutto il pianeta.
Prigioniero
libero
(di
Federico Campi 3^B)
Alzo
lo sguardo oltre le mura,
vola
la mia anima,
non
ci sono barriere nell’azzurro infinito,
una
pace silenziosa mi inonda.
Il
mio corpo al destino si abbandona,
nulla
imprigiona il mio pensiero,
nemmeno
tu, nemico mio,
che
ti sei preso tutto
senza
pietà.
Dentro
non sento catene,
mai
avrai la mia libertà.
Lotterò
fino all’ultimo degli istanti.
Ricordo
indimenticabile di un dolore
(di
Rebecca Bertoni 3^B)
Un campo,
con baracche recintate
che trasudano angoscia e incubi.
Qui la morte scende,
col suo manto nero,
da fucili, persone.
Il pensiero incrinato
di una mente
resta nella memoria.
L’ingiustizia cresce come erbaccia,
ma la paura del giardiniere
la nutre e la lascia vivere.
Tu, io, insieme
non scorderemo chi è perito per queste atrocità,
non li lasceremo nelle mani della madre nera.
Li faremo vivere nel cuore di ognuno di noi,
ogni scelta deve portare a loro
nella nostra anima.
Con l’educazione dello spirito
arriverà il ricordo,
il ricordo di essi.
Commento
alla poesia “Se questo è un uomo”
(di
Veronica Ruosi 3^B)
“Campi
di sterminio”, solo a pronunciare queste due parole mi vengono i
brividi, e mi vengono in mente, tutte le azioni atroci che sono state
compiute in quei luoghi orribili (dire orribili non basta neanche per
descriverli).
Che
cos’è un campo di sterminio?
I
campi di sterminio sono campi creati dalla Germania nazista durante
la seconda guerra mondiale, in cui inizialmente si deportavano
uomini, donne e bambini, insomma intere famiglie, di religione
ebraica, poi verso gli ultimi anni della guerra, si cominciarono a
deportare anche gli oppositori politici, gli omosessuali, gli zingari
ecc.
E
l’unico scopo dei tedeschi era annientarli... ma la cosa che fa più
riflettere è che a loro non bastava cancellare la loro stirpe dalla
faccia della terra, no, sarebbe stato troppo semplice, loro volevano
farli soffrire e poi togliere tutto quello di cui un essere vivente
ha bisogno per vivere, tra cui una delle cose più importanti a mio
parere: la dignità! Come ha detto Primo Levi, gli uomini lavoravano
nel fango e non conoscevano pace, lottavano per un pezzo di pane,
mentre le donne erano senza capelli, simbolo di femminilità, e senza
nome, avevano gli occhi vuoti e il grembo freddo. Io mi chiedo come
facessero i nazisti a nutrire tanto odio verso questo popolo: erano
talmente brutali che li privavano del loro nome, che è una parte di
noi importante e che ci caratterizza, una cosa rilevante per un
essere umano. Loro infatti li chiamavano con dei numeri e li
consideravano nullità, oggetti che potevano essere sacrificati, per
una ragione per loro ritenuta superiore, come un male nel mondo da
estirpare. Ma in quel momento l’unico male che era da estirpare era
l’odio che veniva nutrito verso gli ebrei.
I
prigionieri, erano trattati talmente male - il bestiame forse era
trattato meglio - che a volte per non dimenticare com'era la loro
vita, dopo la deportazione si ripetevano il loro nome, cosa che per
noi è impensabile.
Alla
fine della guerra, successivamente alla liberazione dei russi, molti
deportati si
suicidarono perché, dopo aver vissuto così male e aver visto così
tanta morte davanti
ai loro occhi,
non
riuscivano più a sopportare il peso dei loro ricordi.
Ecco!
Questi sono i campi di sterminio.
Diario di una
deportata
(di
Maria Francesca Fenuta 3^B)
Era
il 5 maggio 1944, ero a casa da sola, quando sentii
un
forte rumore proveniente dalla cucina, dove accorsi immediatamente
poco dopo. Vidi un gruppetto di uomini che mi facevano molta paura, a
causa della loro espressione seria, che non faceva trapelare alcuna
emozione. Dopo pochi secondi uno degli individui cominciò ad
avanzare velocemente verso di me. Mentre mi prendeva per un braccio,
cominciò a parlarmi in una strana lingua che non comprendevo. Io
cominciai a dimenarmi per liberarmi, ma con scarsi risultati, perché
poi si aggiunse un altro uomo nel tentativo di tenermi ferma. Mi
portarono davanti ad un furgone blindato (dove c’erano tante altre
persone ) nel quale mi buttarono bruscamente. Subito dopo salirono
sul veicolo, chiusero le portiere, avviarono il motore e partirono.
Dopo
un tempo che sembrava infinito, finalmente il furgone si fermò e gli
uomini che ci avevano preso ci fecero scendere e ci condussero dentro
delle strutture, in cui c’erano altre persone con un’aria più
promettente, che iniziarono a parlarci in tedesco:
alcuni di noi riuscirono a capire quello che ci veniva detto, altri
invece no. Quelli che non capivano chiedevano in giro se qualcuno
poteva tradurre, ma evidentemente nessuno rispondeva
loro,
infatti
li vedevo molto confusi e arrabbiati all’idea di non capire cosa
dovessero fare. Dato
che non potevano fare null'altro per cercare di comprendere, si
limitarono a seguire chi aveva capito le istruzioni.
Io
ero una delle persone che avevano capito almeno
in parte:
saremmo stati mandati in un altro posto di
lì a poco. Non capivo cosa stesse succedendo, ma sinceramente
preferivo non fare domande, perché
l’espressione che avevano gli uomini mi faceva paura. Le persone
che si trovavano nelle “case” al momento del nostro arrivo mi
avevano detto che io sarei dovuta andare in un luogo chiamato
Auschwitz: era un posto che non avevo mai sentito e che tantomeno
conoscevo. Spinsero me e altre persone dentro un vagone di un treno.
La carrozza era di un treno merci, e non era molto spaziosa per la
quantità di persone che erano nella vettura, ma da quello che sono
riuscita a vedere, mi era sembrato che il nostro vagone fosse quello
con meno gente all’interno. Non sono sicura del tempo che abbiamo
passato dentro quel treno, ma a giudicare dall’alternanza del
giorno e della notte credo che siano passati all’incirca tre giorni
e due notti. Gli spazi della carrozza non permettevano a nessuno di
noi di sedersi, né tantomeno di spostarsi, ma ad
un tratto
sentimmo un forte frastuono. Non sapevo cosa fosse fino a quando non
vidi una lieve luce farsi spazio tra di noi, e allora capii
che
le porte del vagone si erano aperte.
Una
serie di uomini impassibili si fecero largo per cercare di arrivare
da ognuno di noi: una volta che ebbero raggiunto coloro con cui
volevano parlare, iniziarono a far loro
delle
domande molto semplici, ad esempio come si chiamavano, se erano sani
o malati, se avevano figli, mogli o mariti e così via. Quando
finalmente arrivò il mio turno, io dissi il mio nome, che ero sana,
che i miei genitori erano partiti per lavoro poco tempo prima e che
io ero a casa da sola da ormai qualche mese. Una volta che finirono
di interpellare tutti quelli che si trovavano sulla mia carrozza, ci
fecero scendere dal treno; non appena misi piede fuori, vidi che
c’erano tantissime persone che erano confuse come me.
Poco
dopo essere scesi dal treno ed esserci guardati intorno per capire
dove fossimo, alcuni soldati con un fucile in mano ci fecero capire
urlando che dovevamo stare zitti, e così facemmo, ma purtroppo c’era
un uomo che continuava ad urlare contro uno dei soldati, e questo
senza esitare sferro un colpo di fucile contro quell’uomo. Restammo
tutti sconcertati dalla reazione del soldato: la moglie dell’uomo
si disperò cadendo per terra, ma gli altri soldati la fecero alzare
puntandole il fucile contro e le dissero qualcosa nella lingua che
avevano usato con me quando mi avevano preso. Io ho supposto che le
avessero detto di smetterla, altrimenti avrebbero ucciso anche lei,
dato che lei si è alzata con aria afflitta e spaventata.
Mentre
la donna si alzava da terra, alcuni di noi scorsero in lontananza un
gruppetto di uomini con in mano delle lanterne: erano vestiti con
degli indumenti stracciati e a righe e con un cappellino abbinato si
avvicinarono a noi. Non
appena ci
furono
vicini, i soldati, senza lasciarci il tempo di riprenderci dopo
l’accaduto, ci spinsero verso quegli uomini, parlandoci
in tedesco.
Solo che mentre tutti ci avviavamo verso gli uomini vestiti a righe,
loro ci fermarono e mandarono avanti solo noi donne e i bambini,
mentre gli uomini, non capendo, cercarono di chiedere informazioni
sul perché
era da fare questa distinzione. I
soldati però
si
limitarono solo a tenerli fermi, in modo che gli uomini con i vestiti
stracciati riuscirono
a portarci via. Riuscii
a sentire un uomo chiedere ai soldati se ci avrebbero riviste, ma non
sentii
alcuna
risposta.
Camminammo
per un lungo tempo fino ad arrivare ad una specie di casa, dove
entrammo alla svelta, dato che aveva cominciato a piovere di colpo.
Appena fummo dentro alla struttura, gli uomini che ci avevano
accompagnato ci dissero di spogliarci e ci accompagnarono dentro
un’altra stanza, dove poi facemmo la doccia. Una volta fatta la
doccia, andammo dentro un’altra stanza, dove ci vestimmo degli
stessi abiti degli uomini che ci avevano
accompagnati
alla casa. Fatto
ciò, fummo condotte
ad una specie di campo, dove poi ci costrinsero a lavorare. Se
qualcuna
osava anche solo per un momento alzarsi e riprendere fiato, veniva
picchiata
quasi a morte e senza protestare doveva poi ritornare a lavorare.
Arrivò
finalmente il momento di andare a dormire, un gruppo di uomini ci
condusse dentro una sorta di capanno, dove c’erano degli stracci
abbastanza lunghi per coprirci, ma non abbastanza pesanti da tenerci
al caldo, non solo in quel momento, ma soprattutto in
vista dei mesi futuri in cui sarebbe arrivato
il periodo autunnale. Non
osavo neppure pensare a dicembre, quando
molto
probabilmente sarebbe nevicato e noi saremmo morte
dal freddo. Ad una certa ora della notte, mi svegliai e sentii di non
essere l’unica: vidi un’ombra appoggiata alla parete del capanno
e
decisi di andare a vedere se la persona era sveglia oppure si era
addormentata. Poco
prima di raggiungere la parete, sentii
un lamento provenire proprio dalla direzione in cui stavo andando:
quando mi avvicinai ulteriormente, capii che la persona da cui stavo
andando era una bambina e che stava piangendo. Mi sedetti accanto a
lei e le chiesi come si chiamava e lei mi disse che il suo nome era
Carlotta, allora sottovoce le chiesi il motivo della sua tristezza,
anche se era molto facile capirlo. Lei mi disse che le mancava suo
padre, che era rimasto con gli altri uomini, mentre ci portavano
dentro questo inferno sulla terra. Non appena finì di parlare, le
proposi di venire a dormire vicino a me e le
promisi che
le avrei raccontato una storia per farla addormentare: lei accettò e
ci dirigemmo verso la parte di capanno
dove dormivo io.
Mi
svegliai con un frastuono e notai che il sole doveva ancora sorgere,
quando entrarono degli uomini armati: non so come, ma tutti capimmo
che era ora di andare fuori. Appena giungemmo fuori, vedemmo delle
persone con degli strani oggetti in mano. Ci chiamarono uno alla
volta e ci incisero sul braccio dei numeri: sentivo le urla di dolore
delle persone che venivano tatuate prima di me, e man mano che la
fila si accorciava e il mio turno si avvicinava, ero sempre più
terrorizzata. Appena arrivò il mio turno, da una parte ero
sollevata, perché
non avrei dovuto più sopportare l’angoscia dell’attesa, ma
dall’altra
ero spaventata all’idea di farmi incidere. Senza neanche
accorgermene iniziai ad urlare dal dolore, ma esso cessò in un
attimo e mi ritrovai con il braccio dentro l’acqua.
Le
giornate andavano avanti giorno dopo giorno, settimana dopo
settimana, mese dopo mese, e io cominciavo a notare che mancavano
sempre
più persone conosciute e nello
stesso tempo
a vedere sempre più persone nuove. Non
ci davo tanto peso però,
perché
pensavo che le donne fossero
tornate dalle loro famiglie, anche se non lo trovavo giusto, perché,
dato che eravamo arrivate lo stesso giorno, saremmo dovute
tornare
tutte insieme
dalle
nostre famiglie.
Poi
inaspettatamente accadde. Un
giorno come tutti quelli che avevamo passato in quel posto orribile
ci svegliammo e trovammo dentro al campo un gruppo di uomini armati,
ma questa
volta
con una divisa azzurra e non marrone. Avevano arrestato il generale,
ma degli altri non si vedeva neanche l’ombra. Quando ci venne detto
che eravamo liberi e che non avremmo più dovuto subire quelle
torture, non potemmo credere alle nostre orecchie. Finalmente avevamo
la libertà, anche se nessuno di noi poteva pretendere di vivere la
vita come la viveva prima del campo di sterminio... ma potevamo
provarci. Una di noi chiese dove erano finite le ragazze e gli
uomini, così una delle guardie che ci avevano liberato ci disse che
avremmo potuto rivedere i nostri mariti entro
pochissimo tempo, ma non ci disse nulla delle altre donne.
Solo
dopo capii che erano sprofondate nel grande buio, ma che non
avrebbero mai abbandonato la mia memoria...